lunedì, luglio 05, 2010

MEDEA FIAM (note di regia)




Medea e Giasone: si direbbe che nella sua tragedia Euripide abbia voluto raffigurare due personaggi incompiuti: da un lato una figura maschile che non sa intendere le passioni, e dall’altro una figura femminile che non solo non conosce il perdono, ma neanche il compromesso di vivere in società. È facile supporre che prima di giungere ad una creazione drammatica di tale modernità, Euripide sia stato attratto dalla figura di Medea come maga tout court (come testimonia la trama delle Peliadi) e dal rapporto tra la sua storia ed il re d’Atene (come si ricava dall’Egeo).
La Medea, dunque, sarebbe il secondo tempo, a livello narrativo e non compositivo, di una vicenda di cui le altre due tragedie rappresentano il primo e il terzo atto: pure non si può parlare di una trilogia ideale che allacci con una sua unità i drammi dedotti dalla storia della donna della Colchide: staccate tra loro nel tempo di composizione, esse testimoniano invece uno sforzo progressivo verso la comprensione di un animo femminile dall’ethos barbarico. Questo spiega perché abbiamo scelto di mantenere la scena dove Egeo promette ospitalità a Medea, scena che, nell’ambito di una riduzione, poteva anche essere omessa, come in realtà lo era all’inizio del nostro progetto; poi abbiamo deciso dare la percezione di questo impianto narrativo (o forse è stato semplicemente il nostro perverso scrupolo filologico?): sta di fatto che abbiamo recuperato la scena, affidandola allo stesso attore che interpreta anche Creonte.

Con Medea si giunge alla comprensione della donna in quanto tale. Infatti, dal punto di vista drammatico, la Medea non appartiene al mito se non per certi aspetti formali: l’invio dei doni incantati a Glauce rappresenta l’unica espressione propriamente magica di Medea, la sola concessione al mito all’interno di un dramma che subalterna la leggenda all’analisi del dolore di una donna tradita nel profondo. Il processo di introspezione che Euripide ha applicato al mito fa sì che in esso si respiri continuamente l’atmosfera dell’ambiente in cui egli vive, il dramma è dunque anacronistico rispetto al mito e l’anacronismo si confonde spesso con l’attualità, quella ateniese del V secolo a.C. in cui Medea si risveglia (e anche la nostra).
Lo stesso avviene per Giasone: lui non ingaggia duelli col destino, si rifugia in una confortevole e grigia routine. A questo punto, dato il depauperamento e la destrutturazione del patrimonio mitico tradizionale, sarebbe legittimo chiedersi dove risieda la sostanza tragica del dramma. Eppure, paradossalmente, lo scontro tra Medea e Giasone diventa di un così primitiva archetipicità da risultare inattuale, in quanto modernissimo ancora ai nostri occhi. I personaggi sono portatori di principi che li trascendono: è questo il passo vero verso il tragico.
La mancanza di comprensione tra Medea e Giasone oltrepassa i limiti storici e viene chiamata a rappresentare l’incompatibilità di strutture mentali organizzate in percorsi e logiche diverse non solo per aspetto, ma anche per concezione: Giasone non riesce neppure ad intuire il dolore di Medea perché a lui sono estranee le dinamiche emotive che agitano una donna. Ancora oggi disturbano le manifestazioni eclatanti e terribili delle passioni del profondo: si tenta persino di esorcizzarle imputandole a cause esterne all’uomo, a qualcosa di visibile e quindi riducibile a categorie. E allora vediamo Giasone ridurre la causa del dolore di Medea ad una gelosia da comare, infuocata più che dallo sdegno, dall’abbandono dei doveri coniugali.
Medea, invece, è personaggio che esiste solo nella crisi. Il punto cruciale della sua crisi consiste nell’infelicità. È un’infelicità che si muove su onde sempre più lunghe, sempre più forti: in prima istanza deriva dalla sua situazione esistenziale di moglie tradita e abbandonata da un marito in cerca di benessere e di successo; poi, quando ha deciso di vendicarsi, uccidendo i figli per non negare se stessa e annullare la propria identità di persona, l’infelicità consisterà nella presa di coscienza di essere carnefice e vittima.
Quando Medea esce dalla scena guarda miracolosamente al domani: lo spettatore non è ancora pronto a dare un verdetto di condanna o di assoluzione. Medea è personaggio infernale e umanissimo che si oppone a chi, ottuso nelle proprie convinzioni, immobilizzato dal terrore nella prigione delle proprie categorie, non si sforza di comprendere il diverso. Medea uccide il propri figli: è un modo per distruggere quella parte di lei che ha ceduto e si è umiliata, perdendo speranze e sicurezze? Medea uccide i propri figli, eppure li ama: ma è amore o troppo amore di sé? Medea mette a dura prova non solo la sensibilità, ma soprattutto l’intelligenza e la cultura del pubblico (di ieri e di oggi).
Nella psicologia del profondo, che Euripide cerca di indagare anticipando un problema affiorato alla coscienza solo con la rivoluzione psicologica del Novecento, non valgono più le organizzazioni di pensiero e Medea è un’incarnazione dinamica dell’idea stessa di profondo, così come lo sarà Dioniso nelle Baccanti, il quale dirà a Penteo:

Tu non sai perché vivi, né che fai, né chi sei.

Medea allora avrebbe risposto:

Medea fiam


[G.B. - A.B.]

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